Vi è mai capitato nella vita di essere andati privatamente da uno specialista medico per richiedere una consulenza di un’ora e non aver pagato? È sconcertante vedere come da qualche anno a questa parte ci siano molti colleghi psicologi e psicoterapeuti che adottano la politica del primo colloquio gratuito.
Ma com’è nata questa politica se non partendo da una svalutazione che il professionista stesso fa del proprio lavoro e da una richiesta sottilmente deduttiva di attrarre potenziali pazienti? In questo modo il terapeuta perderebbe quella neutralità che contraddistingue la sua figura e il compenso crea quel necessario distacco utile ai fini della relazione che sin dal primo colloquio si sta avviando tra il terapeuta e il paziente. Nella gratuità il terapeuta rischia di essere confuso con altre figure ugualmente importanti socialmente come il sacerdote o un caro amico ma che rappresentano altro in colui che cerca un dialogo interiore di tipo diverso.
In questo modo un incontro gratuito, rischierebbe di essere inconsciamente squalificato e ridotto ad una chiacchierata amichevole facilitando ed aumentando fortemente le resistenze alla cura che comunemente la persona può avere nel momento in cui decide di intraprendere un percorso di psicoterapia.
Oppure in molti casi l’assenza del pagamento può essere un ostacolo al lavoro psicologico che può portare a considerare il terapeuta ed il lavoro psicologico svolto “di poco o scarso valore” o a pensare che in fondo il tempo del professionista in fondo non valga molto o addirittura non valga per nulla; il pagamento infatti è parte integrante del lavoro terapeutico perché ci svela quanto una persona possa essere realmente motivata e disposta ad investire per la propria salute psichica e a farsi realmente aiutare.

Il decalogo che la famosa psicoanalista inglese Susan Isaacs, nota in Inghilterra e a livello internazionale per i suoi lavori nel campo della pedagogia e dell’educazione, suggerisce alle mamme:
1. Non dire semplicemente “non devi fare questo” se puoi aggiungere “ma fai quest’altro”.
2. Non chiamarli “capricci” quando si tratta soltanto di cose che disturbano.
3. Non interrompere qualsiasi cosa faccia il bambino senza dargli un preavviso.
4. Non portare a passeggio il bambino, ma vai a passeggio “con” lui.
5. Non esitare a fare delle eccezioni alle regole.
6. Non prendere in giro il bambino e non fare dei sarcasmi: ridi “con” lui e non “di” lui.
7. Non fare mostra del bambino agli altri e non farne un giocattolo.
8. Non credere che il bambino capisca ciò che gli dici solo per il fatto che tu lo capisci.
9. Mantieni le tue promesse e non farle quando sai di non poterle mantenere.
10. Non mentire e non sfuggire alle domande.

I bambini non solo hanno bisogno dell’affetto e della simpatia dei genitori ma anche dei loro seri e pazienti sforzi per capire la via del loro sviluppo mentale: hanno bisogno in realtà di essere ascoltati.

Bibliografia
Bollea G., Le madri non sbagliano mai, Milano: Feltrinelli, 1995

Nei primi mesi di vita il bambino non è ancora un’entità differenziata da quella della madre. A differenza degli animali che dopo un periodo embrionale nel corpo materno sono in grado, dopo la separazione dalla madre, di diventare relativamente autonomi in tempi brevi, il bambino soltanto dopo il primo anno di vita riesce a raggiungere quella maturità che altre specie animali possiedono già al momento della nascita.
Il bambino dopo un periodo embrionale intra-uterino, deve attraversare anche un periodo embrionale post-uterino. È come se il bambino vivesse nel primo anno di vita ancora nell’utero della madre, è ancora un “non nato”, di fatto non si è ancora differenziato psicologicamente e fisicamente dal corpo della madre. In questo periodo c’è il predominio del rapporto originario con la madre in cui il bambino vive il proprio corpo e il Sé ma anche l’ambiente in cui vive come se si trovassero tutti dentro la madre. Per questo tutte le esperienze negative che il bambino può vivere si presentano come disturbi del rapporto originario con la madre. Il bambino non possiede ancora un Io differenziato , e pertanto anche uno stato di angoscia della madre si trasmette al figlio senza che tra i due ci sia una comunicazione diretta.
Tutte le esperienze spiacevoli e piacevoli legate al soddisfacimento di un bisogno come la fame o il freddo, il bambino le esperisce come facenti parte di un’unica unità in cui il bambino e la madre, il corpo che ha fame e il seno che allatta, sono una cosa sola. Se in questo periodo interviene una mancanza della madre come un suo allontanamento fisico o un suo distanziamento emotivo, il bambino può sperimentare questa mancanza materna generando un profondo senso di colpa.
“Essere buoni significa essere amati dalla mamma; tu però sei cattivo, quindi la mamma non ti ama”. Neumann parla di “senso di colpa primario”, è una condizione che determina nel bambino la convinzione che non essere amato equivalga a non essere normale, a essere malato. Il bambino non avendo ancora una coscienza sviluppata non ha la capacità di vivere l’assenza della madre come ingiustizia o muovendole rimproveri, ma vive l’assenza della madre come propria estinzione, per lui “assenza e “morte” sono la stessa cosa. Poiché in questa fase la madre rappresenta per il bambino “madre, tu, mondo e sé” l’allontanamento della madre traduce un mondo che diventa caos e nulla. Per questo motivo è importante tener conto del momento in cui si verifica l’esperienza traumatica, della sua durata e del modo in cui viene compensata dall’ambiente in cui il bambino vive. Un rapporto originario è gratificante nella misura in cui nel rapporto madre-bambino non si verificano troppe deviazioni della norma, e parliamo di situazioni in cui la madre si dedica troppo o troppo poco al bambino. Solo allora il bambino potrà uscire gradualmente dalla sfera materna per diventare un individuo che si aprirà al mondo.

Bibliografia
E. Neumann, La personalità nascente del bambino Red Edizioni, Como 1991

Un bambino può manifestare il proprio disagio attraverso molteplici forme sintomatiche che segnano sempre particolari esperienze traumatiche da lui vissute.
Per Winnicott il bambino ha bisogno del sintomo per esprimere un ostacolo nel suo sviluppo emozionale. (D.W. Winnicott, 1958)
Ricercando l’origine del sintomo non sempre ci troviamo di fronte ad un trauma evidente e conclamato (es. incidenti gravi, lutti o molestie sessuali); anche in uno sviluppo emozionale normale, il bambino può vivere un disagio psichico che diventa tanto più traumatico quanto più interviene in un periodo della sua vita in cui non possiede ancora le difese necessarie per proteggersi da un avvenimento che ancora non può comprendere ed elaborare. I genitori possono ad esempio litigare davanti al bambino in un momento in cui lui è impegnato ad affrontare un altro problema che appartiene al suo processo fisiologico di sviluppo.
Di fatto il bambino è obbligato a prendere dentro di sé questa esperienza al fine di poterla rendere accettabile e dominarla e, facendo questo, percepirà il proprio Sé come cattivo; la situazione diventa più drammatica se il trauma opera in uno stadio in cui la crescita dell’Io nel bambino è appena iniziata.
Masud Khan, inoltre, introduce il concetto di trauma cumulativo per descrivere una esperienza quotidiana nell’interazione madre-bambino fatta di piccole manchevolezze quotidiane nelle cure materne che a lungo termine generano una frammentazione nella coesione del sé del bambino. Ad esempio un particolare atteggiamento ansioso della madre o suoi sbalzi di umore ripetuti nel tempo, possono generare del tutto inconsapevolmente comportamenti patologici nel figlio.
Lo stesso Winnicott afferma a proposito dei bambini la cui affettività e la cui crescita psichica sono stati deformati da un disturbo ansioso o depressivo della madre: “Si vedrà come questi bambini, nei casi estremi, abbiano un compito che non potranno mai assolvere. Devono prima di tutto affrontare l’umore della madre: riuscire in questo compito significa soltanto riuscire a creare un’atmosfera in cui poter cominciare una propria vita” (D.W. Winnicott, 1948)
Per Sandor Ferenczi, infine, il trauma non è necessariamente associato a qualcosa che è avvenuto, ma a “ciò che non ha avuto luogo”. Se i genitori non riescono a sintonizzarsi ai reali bisogni psichici del bambino annullano il suo valore come persona e determinano in lui una insanabile ferita narcisistica: viene compromesso il suo sviluppo emozionale e soprattutto la sua capacità di amare.
Ferenczi sottolinea l’importanza della presenza della tenerezza oltre alle normali cure nell’interazione madre-bambino. Solo una madre intimamente felice dell’esistenza del suo bambino, può sperimentare la tenerezza come particolare forma di amore. Tramite il desiderio della madre, il bambino fa esperienza del sentimento di esistere per l’altro, condizione questa necessaria per procedere verso un sano sviluppo emozionale. Un bambino che non riceve questo particolare tipo di protezione dall’ambiente, andrà inevitabilmente verso un impoverimento della personalità e del carattere.
La persona del bambino, ancora così poco consolidata, non ha alcuna possibilità di vita se l’ambiente non la sostiene sotto tutti gli aspetti. Senza questo aiuto i singoli meccanismi psichici e organici divergono e nello stesso tempo esplodono” (S.Ferenczi, 1932).

Bibliografia
Ferenczi, S., Fondamenti di psicoanalisi, Bologna: Guaraldi, 2002
Khan M., Lo spazio privato del sé, Torino: Bollati Boringhieri, 1979
Winnicott, D.W., Dalla Pediatria alla psicoanalisi, Firenze: G.Martinelli & C., 1958
Winnicott, D.W., Gioco e realtà, Roma: Armando, 1976